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Definire un linguaggio comune e condiviso per riferirsi alle persone che usano droghe per superare lo stigma.
Livello di accordo con questa priorità
Piattaforma chiusa per nuove valutazioni il 15/5/2022
In relazione alla terminologia sembra sia considerata ormai acquisita la nozione di PUD, inteso come acronimo di persona che usa droga.
Riteniamo questa espressione, già contestata in sede di conferenza nazionale, sia durante i lavori preparatori che nel documento Fict inviato successivamente , fuorviante quando utilizzata all’interno del sistema dei servizi. In un linguaggio comune condiviso riteniamo fondamentale che sia più corretto parlare di persone con problemi di dipendenza da sostanza e non di persone che usano droga.
riteniamo fondamentale utilizzare una terminologia che non vada nella direzione, a nostro avviso estremamente pericolosa, della normalizzazione dell’uso, considerando peraltro che nell’ambito di una dipendenza la normalizzazione è sinonimo di cronicizzazione. La Fict in tal senso afferma il valore irrinunciabile della dignità di ogni uomo e delle risorse di cui è portatore. Il modello di intervento che propone si fonda quindi sulla centralità della persona, intesa nella sua straordinaria unicità e capacità relazionale, e si pone l’obbiettivo del recupere della massima autonomia ed in – dipendenza possibile. Un piano di azione per le dipendenze, teso evidentemente anche ad una organizzazione dei servizi, dovrà quindi andare secondo noi verso queste direzioni, lasciando da parte altre questioni che non crediamo debbano trovare spazio in un piano per le dipendenze. Ci pare altresì impresa ardua superare lo stigma con un nome che comprenda la parola droga. Nel coinvolgimento attivo dei Pud, riteniamo più importante sostituire la parola coinvolgimento con la parola ascolto e il loro intervento solo nella valutazione delle azioni.
Nell’ampio campo dell’obiettivo 11 questa azione rappresenta una priorità centrale. La possibilità di concordare una terminologia rispettosa della dimensione personale e descrittiva del comportamento di uso è un segnale –piccolo ma fortemente simbolico- di una modalità partecipativa che si vorrebbe ancora più ampia. È una terminologia che ritroviamo nel dibattito internazionale, che ha permesso da un lato di superare le definizioni umilianti del passato (un’identità di “tossico” e di “drogato” da cui sembrava difficile emanciparsi e che anzi sembrava, in certi modelli “terapeutici”, essere il primo passo di mortificazione per poi accedere ad un cammino di purificazione), dall’altro di superare l’equivalenza, ampiamente smentita dai dati epidemiologici e clinici, fra uso di sostanze e condizione di dipendenza. Superare lo stigma è condizione intrinsecamente positiva, perché ci fa vedere sempre la persona in tutta la sua complessità, senza ridurla a mera portatrice di problemi, e non alimenta l’esclusione sociale, aprendo a possibilità relazionali che rappresentano fattori di protezione.
Il rispetto di ogni persona è fondamentale.
In tal senso l’obiettivo è condivisibile purché non si traduca in tentativi di omologazione del pensiero
Come già ravvisato in un commento precedente, gli effetti connessi allo stigma a cui sono costrette le persone che usano droghe costituiscono uno dei principali fattori di rischio non solamente per la loro salute in modo diretto, ma per la possibilità stessa di mantenere, o eventualmente ricucire, un tessuto sociale di appartenenza e quindi un proprio posizionamento all’interno della società. Lo stigma agisce a diversi livelli nella costruzione di relazioni gerarchiche che finiscono per intrappolare l’individuo, qualsiasi sia la lente attraverso cui lo si guarda: l’ethos compassionevole, l’offerta di una relazione salvifica, l’eccesso di responsabilizzazione individuale, fino alla esplicita criminalizzazione. Ognuno di questi atteggiamenti modella un impianto relazionale gerarchico che ostacola il riconoscimento della dignità, minando le fondamenta della partecipazione della persona alla società in quanto portatrice di diritti e non sulla base di una concessione da parte di qualche tipo di autorità. Il diritto di decidere come definirsi, di esigere servizi che tutelino la loro salute in quanto cittadini e il diritto di rigettare una definizione patologizzante che, come ricordato, deve essere frutto di una diagnosi e non di un pensiero generalista e moralizzante sull’individuo.
Si sottolinea, a proposito del DSM, la sua natura di manuale statistico e non predittivo. Non sono solamente i quadri diagnostici a subire modifiche, ma in maniera ancor più radicale e repentina gli stili e le modalità di consumo, la relazione tra chi consuma e la società nel suo complesso, per non parlare delle tipologie di sostanze. Ricordo inoltre che la stessa formulazione di “dipendenza” come concetto è e potrebbe essere ampiamente dibattuta anche in questa sede. Il lavoro sul linguaggio non dovrebbe limitarsi a nomenclature e definizioni utilizzate per le persone, lo stigma passa attraverso i nomi assegnati a istituzioni e servizi che vi si interfacciano. La riflessione dovrebbe quindi allargarsi all’opportunità di continuare a utilizzare diciture riduzioniste come “Dipartimento per le politiche antidroga” e tanto più “Piano di azione nazionale dipendenze”, visto l’ampiezza e articolazione del fenomeno in questione.
La mia valutazione per questa priorità è che sia molto importante. In questo contesto di esperti credo sia utile riferirci anche alla ricerca scientifica sul tema “stigma e persone che usano sostanze”. In primo luogo è bene sottolineare le ragioni dell’attuale e rinnovata attenzione al tema dello stigma e del linguaggio utilizzato nei servizi che si occupano di queste persone. La principale evidenza riguarda l’accessibilità
ai trattamenti e quindi si osserva che un linguaggio stigmatizzante allontana le persone dai servizi le fa sentire meno comprese rispetto alla propria condizione di vita ed in definitiva diminuisce l’efficacia dei servizi stessi. Lo stigma quindi aumenta l’isolamento sociale delle persone che usano sostanze e l’isolamento sociale è uno dei principali fattori di rischio per queste persone. Associato all’isolamento sociale vi è un aumento della violenza di genere per le donne che usano sostanze (e per altri gruppi vulnerabili) quindi un linguaggio stigmatizzante è a tutti gli effetti un fattore di rischio per queste persone. Si dovrebbe inoltre ricordare che sono popolazioni che a livello globale sono colpite da misure punitive (che le si ritenga legittime o meno), spesso associate al semplice consumo, che possono arrivare persino alla pena di morte e che determinano un aumento della probabilità di incorrere in eventi traumatici che poi modificano gli stili di consumo in senso peggiorativo. La riflessione sul linguaggio collettivamente utilizzato per definire il sottogruppo di persone che utilizzano sostanze psicotrope all’interno della popolazione generale è quindi un’alta priorità del campo socio-sanitario globale e non “semplicemente” una questione di politiche progressiste eo conservatrici. In questa necessità di riflettere sulle modalità relazionali e verbali (e quindi anche sull’ efficacia) rientrano tutti i servizi da quelli di bassa soglia fino a quelli di trattamento, ma non solo, anche le forze dell’ordine e tutti quegli attori sociali che a vario titolo si occupano di queste persone. Non esiste alcuna evidenza che tutte le PUD siano persone con dipendenza per cui la proposta di chiamare tutte le persone che usano sostanze persone con problematiche di dipendenza non è praticabile. L’esigenza è quella di trovare un linguaggio inclusivo che: 1) aumenti le possibilità per chi vuole cercare un aiuto di farlo senza sentirsi giudicato, ostacolato, ferito, marginalizzato etc e 2) diminuisca le probabilità di subire violenza nella vita per un proprio comportamento. La diagnosi non definisce la vita pubblica delle persone essa è invece uno strumento clinico che serve per orientare i trattamenti e per comunicare tra colleghi. Il concetto di “dipendenza” per come lo intendiamo in questa sede non è un pensiero o un’opinione su qualcuno ma è una diagnosi che per essere formulata deve seguire dei criteri nosografici e di inquadramento diagnostico. Il DSM inoltre è un manuale statistico-descrittivo ed ha nelle sue stesse premesse la posizione di a-teoreticità intesa come funzione descrittiva e non eziopatogenetica. Come tutti sappiamo questo significa anche che i quadri diagnostici sono soggetti a modifiche durante le revisioni e per modifiche si intende sia la variazione dei criteri di formulazione diagnostica, sia i criteri che li compongono, sia la loro stessa esistenza. Inoltre non esiste alcuna evidenza che chiamare “persone che usano droghe” le persone che hanno questo comportamento ( che è relativo a tutte le sostanze psicotrope e non solo a quelle illegali) sia correlato causalmente ad un aumento del consumo o ad un consolidamento dello stile di consumo stesso. Anzi alcuni studi mostrano che organizzarsi in reti, essere visibili come identità pubbliche, fare attività civica eo di advocacy rispetto al proprio consumo di sostanze sia un fattore protettivo per queste persone. La mia opinione personale è che magari in italiano non suona bene la dicitura “persone che usano droghe” ma è proprio quello che succede, le persone usano droghesostanze. Dobbiamo trovare un modo per chiamare le persone senza offenderle, denigrarle, medicalizzarle, marginalizzarle, ferirle e limitando la vergogna traumatica, perchè è giusto eticamente e perchè l’alternativa è parte del problema che vogliamo risolvere insieme. Infine sono invece favorevole alla valutazione che propone di costruire insieme alle persone un linguaggio condiviso.
Azioni collegate alla priorità
IL TERMINE PER L’INSERIMENTO DI PROPOSTE PER NUOVE AZIONI E’ SCADUTO IL 15/5/2022 ALLE 24.00